mercoledì 23 novembre 2011

Marco 13,33-37

I domenica di Avvento (B)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».


VEGLIATE! Cioè?
1. PREMESSA: L’AVVENTO
Non possiamo dimenticarci che questa domenica apre un nuovo anno liturgico (quante volte lo ripeto quasi inutilmente ai ragazzi del catechismo) e ci immette nel tempo dell’AVVENTO, dell’ATTESA della venuta del Signore.
Ma cos’è l’AVVENTO? La risposta immediata dei ragazzi (quando và bene e sembrano particolarmente attenti) è che si tratta di un periodo per prepararci al Natale. E’ una risposta corretta, ma fortemente riduttiva: che bisogno c’è di vivere 4 settimane per prepararci a ricordare un evento che, seppur decisivo per la nostra fede, è accaduto più di 2000 anni fa? O forse attendiamo ancora la venuta di Gesù nella carne della nostra umanità e nella povertà di Betlemme?
Certo sarebbe già un passo in avanti: prepararci a vivere spiritualmente il Natale ci eviterebbe nostalgie verso un passato in cui, da bambini, attendevamo realmente quel giorno fatidico e godevamo di un clima quasi magico e poetico. E ci eviterebbe di rimanere vittime di quel consumismo della corsa ai regali che sempre critichiamo, ma inevitabilmente (?) ci coinvolge; o del dopo abbuffate coi parenti che ci rintronano e ci lasciano solo un po’ più appesantiti di prima.
L’avvento non è solo un ricordo, ma l’attesa di un incontro che richiede la nostra disponibilità, il nostro desiderio. L’incontro improvviso, nel senso che non possiamo programmarlo, con il Signore che viene a “visitarci” quando meno ce lo aspettiamo (visite che possono cambiare la nostra vita e convertirci a lui), ma che sono spesso “occasioni mancate” perché distratti, presi da altro, addormentati, non attenti. Come cristiani sappiamo che Gesù è in mezzo a noi “fino alla fine dei tempi”, ma anche che non possiamo vederlo con i nostri occhi. Sappiamo che questo incontro diventerà definitivo e “visibile” alla fine della nostra esistenza (e ancora una volta tutto ciò sarà in un momento inaspettato) o, come ripetiamo ogni domenica nel Credo, alla fine dei tempi, quando il Signore tornerà Glorioso, visibile nella sua grandezza, “giudicherà i vivi e i morti” e darà compimento a tutte le cose ristabilendo un ordine e un’armonia troppe volte distrutta dagli uomini.
L’avvento, soprattutto nella sua prima parte, vuole risvegliarci dal torpore e dal dubbio che questo mondo che è andato avanti per tanti millenni non finirà certo proprio ora di esistere e dunque che, se il Signore verrà, lo farà in tempi talmente futuri da non riguardarci direttamente.
2. VEGLIATE!
Forse ora comprendiamo meglio l’appello insistente che le letture di oggi ci fanno di VEGLIARE, stare attenti, vigilare… Gesù nel breve brano del Vangelo di Marco (che ci accompagnerà in questo nuovo anno liturgico) lo ripete ben 3 volte. Non per metterci paura (come a volte facevano i preti di un tempo ricordandoci con insistenza: “ricordati che devi morire”, il giudizio di Dio è alle porte…), piuttosto, eventualmente, per esprimere la paura che lui, buon Pastore, ha di perderci.
Essere attenti significa letteralmente essere “tesi a”, “pro-tesi”, “tesi per” l’incontro col Signore che viene o, negativamente, tesi per non essere sorpresi da una sciagura imminente. Significa essere sempre all’erta, stare di sentinella, attenti a ciò che avviene attorno a noi per coglierne segnali di qualcosa che potrebbe cambiare l’esistenza (come l’arrivo di un LADRO, per chi ha da temere di perdere qualcosa di importante o come l’arrivo dello SPOSO per chi lo cerca e lo attende).
Perché attendere e vegliare? Perché “non sapete quando sarà il momento preciso”… “perché il padrone di casa non giunga all’improvviso trovandovi addormentati”. Così, poco più avanti nel vangelo, Marco racconta come i discepoli sono afferrati dal sonno nell’orto del Getsemani, incapaci di condividere con il loro Signore un momento così drammatico e cruciale della sua esistenza e a loro volta incapaci di comprendere gli eventi che staranno per accadere e che li vedranno fuggitivi e angosciati se non addirittura traditori.
Nel Vangelo Gesù per indicare in CHE MODO vegliare usa l’esempio del PORTIERE il quale deve essere costantemente preparato ad accogliere il padrone di casa (che sembra averci definitivamente abbandonato lasciandoci come custodi della casa-chiesa) che da un momento all’altro ritornerà. E’ bella questa immagine del portiere: ci ricorda che siamo suoi custodi, suoi servitori, mai padroni. Ci pone inoltre nella SOGLIA della casa-chiesa, pronti ad accogliere la sua venuta senza lasciarci ingannare dalla “forma” con cui egli si presenterà (“perché, diceva Gesù domenica scorsa, avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito…”: ero io quel povero, quel bisognoso che avete o non avete aiutato e accolto).
3. LO “STILE DELLA VIGILANZA”
Ma cosa significa per noi oggi vegliare, stare attenti, essere pronti?
Significa non dimenticare mai che la vita è un pellegrinaggio, non un fortunoso vagabondaggio, e neanche una più o meno piacevole gita turistica: quindi non dobbiamo mai illuderci di essere già arrivati e non possiamo mai dimenticarci della nostra meta.
Significa attrezzarsi per il “santo viaggio” con un equipaggiamento leggero, con la “bisaccia del pellegrino”, munita dell’essenziale: altrimenti non ci muoveremo di tappa in tappa, ma ci sposteremo solo di poltrona in poltrona.
Significa non misurare il tempo dalla morte in qua, ma dalla morte in là: perciò niente ci turbi, niente ci spaventi: solo il Signore basta!
Vegliare significa considerare gli altri - familiari, amici, colleghi - nostri compagni di pellegrinaggio: quindi significa amare ognuno come un fratello avuto in dono senza mai bramare di possedere alcuno come proprietà privata; significa servire tutti, ma non asservire nessuno.
Vegliare significa considerare la salute, il lavoro, il denaro, il divertimento per quello che sono: non come privilegi da difendere, ma come doni da condividere; come dei mezzi utili per il pellegrinaggio, non come le mete ultime del cammino.
Significa compiere il servizio che ci è richiesto, come fosse l’ultimo, ma sempre come “servi inutili”: con i fianchi cinti e le lucerne accese.
E sempre pronti a ripiegare le tende per andare là dove siamo chiamati, senza accasarci mai da nessuna parte, fin quando non arriveremo al giorno beato dell’incontro definitivo. Significa guardare al futuro non come a un fato incombente e implacabile, né come a un destino fortuito, volubile e capriccioso; significa sperare che la sofferenza, la malattia, la morte e tutte le catastrofi, naturali o sociali, non siano l’ultima parola della storia.
Vegliare significa ricevere, guardare e onorare le cose che Dio ha creato “come se al presente uscissero dalle mani di Dio” (GS 35); significa pure non esitare a piantare un seme oggi, anche se si sapesse che il mondo finirà domani.
4. CONCLUSIONI
Un altro Avvento dunque a smascherare la nostra fede debole e addomesticata ? La nostra mancata attesa della venuta del Signore? Forse anche questo, ma più in positivo questo nuovo Avvento deve essere lo stimolo, il pungolo che ci risvegli dal nostro sonno spirituale, che rinnovi in noi uno STILE di vigilanza, un esercizio interiore di attesa del Signore che ci apra alla visione nella fede delle realtà invisibili.
Questo il grido di Teilhard de Chardin: “Cristiani, incaricati di tenere sempre viva la fiamma bruciante del desiderio, che cosa ne abbiamo fatto dell’attesa del Signore?”.
L’unico atteggiamento saggio e l’unico stile di vita da assumere è dunque la vigilanza, cioè l’essere costantemente all’erta, svegli, in attesa, vivere in un atteggiamento di servizio, a disposizione del padrone che può tornare in ogni momento. Ciò implica impegno, lotta, fatica, rinuncia. Non si può cadere nel disimpegno o nell’indifferenza. La vigilanza è in definitiva l’INSONNIA di chi è innamorato. L’avvento allora, in definitiva, ci parla della venuta del Signore verso l’uomo, ma insieme sprona l’uomo che deve corrispondere con il suo avvicinamento verso il Signore.
Le altre letture arricchiscono queste tematiche condensate nel vangelo: Isaia (1L) si rivolge con un accorato appello, o una preghiera vigorosa, direttamente a Dio (“nostro padre, redentore”): “Perché, Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore? Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. L’Avvento è il tempo opportuno per rinnovare la nostra preghiera come rapporto filiale, accorato al Padre: a lui dobbiamo chiedere aiuto per non soccombere alla prova. Perché, come prosegue Isaia, dobbiamo essere consapevoli della nostra debolezza e del nostro peccato (“siamo avvizziti come foglie”, ci siamo allontanati da te) per poter tornare alla casa del Padre come il figliol prodigo ricordando: “Signore, tu si nostro padre…siamo opera delle tue mani”: abbiamo sbagliato, ma non abbandonarci. San Paolo infine (2L) ci ricorda che abbiamo ricevuto ricchi doni: con le mani piene dei loro frutti, ci prepariamo, sereni ma operosi, per l’incontro finale con il Signore.

Ermes Ronchi: Nel Vangelo il padrone se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi. Atto di fiducia grande, da parte di Dio; assunzione di una responsabilità enorme, da parte dell'uomo. Come custodire i beni di Dio che abbiamo fra le mani? Beni di Dio che sono il mondo e ogni vivente? Il Vangelo propone due atteggiamenti iniziali: fate attenzione e vegliate. Tutti conosciamo che cosa comporta una vita distratta: fare una cosa e pensare ad altro, incontrare qualcuno ed essere con la testa da tutt'altra parte, lasciare qualcuno e non ricordare neppure il colore dei suoi occhi, per non averlo guardato. Gesti senz'anima, parole senza cuore. Vivere con attenzione è l'altro nome dell'Avvento e di ogni vita vera. Ma attenti a che cosa? Attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute e alla ricchezza dei loro doni. Quanta ricchezza di doni sprecata attorno a noi, ricchezza di intelligenza, di sentimenti, di bontà, che noi distratti non sappiamo vedere. Attenti al mondo grande, al peso di lacrime di questo pianeta barbaro e magnifico, alla sua bellezza, all'acqua, all'aria, alle piante. Attenti alle piccole cose di ogni giorno, a ciò che accade nel cuore, nel piccolo spazio che mi è affidato. Il secondo verbo: vegliate. Contro la vita sonnolenta, contro l'ottundimento del pensare e del sentire, contro il lasciarsi andare. Vegliate perché c'è un futuro; perché non è tutto qui, il nostro segreto è oltre noi, perché viene una pienezza che non è ancora contenuta nei nostri giorni, se non come piccolo seme. Vegliate perché c'è una prospettiva, una direzione, un approdo. Vegliare come un guardare avanti, uno scrutare la notte, uno spiare il lento emergere dell'alba, perché la notte che preme intorno non è l'ultima parola, perché il presente non basta a nessuno. Vegliate su tutto ciò che nasce, sui primi passi della pace, sui germogli della luce. Attesa, attenzione, vigilanza sono i termini tipici del vocabolario dell'Avvento e indicano che tutta la vita dell'uomo è tensione verso, uno slancio verso altro che deve venire, che il segreto della nostra vita è oltre noi. Allora è sempre tempo d'Avvento, sempre tempo di abbreviare distanze, di vivere con attenzione. Sempre tempo di adottare strategie di risveglio della mente e del cuore, in modo da non arrendersi al preteso primato del male e della notte, in modo da non dissipare bellezza, e non peccare mai contro la speranza.

giovedì 17 novembre 2011

Matteo 25, 31-46: IL GIUDIZIO FINALE

SOLENNITA' DI CRISTO RE ANNO A
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. (...)

Ermes Ronchi:
Il Vangelo dipinge una potente visione, drammatica, che noi chiamiamo il giudizio finale. Disegna una scena dove è rivelata, più che la sentenza ultima, la verità ultima sull'uomo, è mostrato che cosa resta della vita quando non resta più niente. Resta l'amore del prossimo. Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato. Sei passi di un percorso dove la sostanza della vita è sostanza di carità. Sei passi verso la terra come Dio la sogna. Tutto quello che avete fatto a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me! Il povero è come Dio! Carne di Dio sono i poveri, i loro occhi sono gli occhi di Dio, la loro fame è la fame di Dio. Se un uomo sta male anche Lui sta male. Noi abbiamo ridotto i poveri ad una categoria sociale, all'anonimato. Invece per il Vangelo il povero non è l'anonimo, ha il nome di Dio. Un Dio che ha legato la salvezza non ad azioni eccezionali, ma ad opere quotidiane, semplici, possibili a tutti. Non ad opere di culto verso di lui, ma al culto degli ultimi della fila. Un Dio che dimentica i suoi diritti, preferendo i diritti dei suoi amati. E mi sorprende, m'incanta sempre un'immagine: gli archivi di Dio non sono pieni dei nostri peccati, raccolti e messi da parte per essere tirati fuori contro di noi, nell'ultimo giorno. Gli archivi dell'eternità sono pieni sì, ma non di peccati, bensì di gesti di bontà, di bicchieri d'acqua fresca donati, di lacrime accolte e asciugate. Una volta perdonati, i peccati sono annullati, azzerati, non esistono più, in nessun luogo, tanto meno in Dio. E allora argomento del giudizio non sarà il male, ma il bene; non l'elenco delle nostre debolezze, ma la parte migliore di noi; non guarderà la zizzania ma il buon grano del campo. Perché verità dell'uomo, della storia, di Dio è il bene. Grandezza della nostra fede. Poi però ci sono quelli condannati: via da me... perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare. Quale è la loro colpa? Non è detto che abbiano fatto del male ai poveri, non li hanno aggrediti, umiliati, cacciati, semplicemente non hanno fatto nulla per loro. Sono quelli che dicono: non tocca a me, non mi riguarda. Gli uomini dell'indifferenza. Quelli che non sanno che cosa rispondere alla grave domanda di Dio a Caino: che cosa hai fatto di tuo fratello? Il giudizio di Dio non farà che ratificare la nostra scelta di vita: via, lontano da me, perché avete scelto voi di stare lontano da me che sono nei poveri. Allora capisco che il cristianesimo non si riduce semplicemente a fare del bene, è accogliere Dio nella mia vita, entrare io nella vita di Dio: l'avete fatto a me!

- “«l’avete fatto a me»”. Questo non giustifica una certa forma di spiritualità che contempla “vedere nell’altro Gesù”, ma di guardarlo come Gesù. Quindi non amare gli altri per Gesù, ma amarli con Gesù e come Gesù.
- “«Via lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno»”. Mentre prima Gesù ha detto “venite benedetti dal Padre mio”, perché il Padre benedice, qui dopo “maledetti” non dice “dal Padre mio”. Da chi sono stati maledetti? Da se stessi.
- il Signore non chiederà alle persone se hanno creduto, ma se hanno amato; non chiederà se sono saliti al tempio, ma se hanno aperto la loro casa al bisognoso. Non chiede se hanno offerto, ma se hanno condiviso il loro pane con l’affamato.

domenica 13 novembre 2011

Lc 18,35-43: IL CIECO GUARITO

Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!».
Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato».
Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.

Paolo Curtaz: Passa il Signore. Passa nella nostra vita, quando meno ce lo aspettiamo, passa quando tutto, intonro a noi, è buio fitto. Passa, e ce ne accorgiamo perché qualcuno ne parla, perché ne avvertiamo la presenza. "Passa Gesù Nazareno": questo e solo questo dev'essere l'annuncio della Chiesa, il suo grido, la sua passione, dire ad ogni uomo che Gesà passa, che non tiene le distanze. Comunità di ciechi guariti, la Chiesa grida il suo Signore, grida al suo Signore perché altri, che dimorano nelle tenebre, possano infine vedere. Allora, se abbiamo fede, cominciamo a gridare con la forza della preghiera, chiediamo salvezza, urliamo la nostra solitudine e il nostro buio interiore. In quel momento molti, attorno a noi, ci dicono di tacere. "Dio non esiste", "Non si occupa di te", "Rassegnati". Il nostro mondo vuole ridurre l'incontro con Gesù a devozione personale, a ipersensibilità spirituale, a pia illusione, se abbiamo fede, se non cediamo, se ancora gridiamo dal profondo della nostra disperazione, il Signore si ferma e si avvicina. Se lo vogliamo, perché sempre Dio rispetta la nostra volontà, ci restituisce la luce interiore. Lodiamolo, oggi, insieme a tutta la comunità dei redenti!


Il Vangelo di oggi è un insegnamento sulla preghiera. Il cieco fa un'intensa e insistente preghiera di domanda: "Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me! ' e poi ancora più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!"".
Una volta esaudito, la sua diventa preghiera di lode, che si allarga a tutto il popolo: "Cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio".
La preghiera di domanda ha due condizioni, e tutte e due compaiono nel racconto evangelico. La prima condizione è essere consapevoli di aver bisogno del Signore. U cieco ha questa consapevolezza, ma piuttosto confusa: lui sa di aver bisogno della vista e grida forte, e non è possibile farlo tacere, perché ha coscienza della sua miseria, della sua condizione che non è normale e vuole a tutti i costi uscirne.
La seconda condizione è la fiducia: senza di essa non ci sarebbe preghiera, ma soltanto scoraggiamento e disperazione. Se invece, nella nostra miseria, si accende la fiducia, possiamo pregare; per questo Gesù ha detto: "La tua fede ti ha salvato". La consapevolezza della propria miseria si è accompagnata alla fede nella potenza e nella misericordia del Signore: il cieco ha pregato, ha gridato, è stato esaudito e ha potuto alla fine lodare Dio.
Consapevolezza e fiducia, dunque, una consapevolezza che non deve essere motivo di tristezza: è la premessa per una preghiera autentica, perché ci fa ricorrere a Dio con un grido più sincero per essere guariti. Non dobbiamo rinchiuderci nella nostra miseria; piuttosto dire a Dio: "Signore, tu vedi come sono misero e bisognoso di te: io credo che tu, nella tua bontà, hai pietà di me e mi guarisci. Io lo credo, o Signore!". Allora la nostra preghiera sarà esaudita e potremo dare lode a Dio e alla sua infinita misericordia.

venerdì 11 novembre 2011

Matteo 25,14-30: LA PARABOLA DEI TALENTI

XXXIII Domenica Tempo ordinario-Anno A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (...)».

Ermes Ronchi:
Dai protagonisti della parabola emergono due visioni opposte della vita: l'esistenza, e i talenti ricevuti, come una opportunità; oppure l'esistenza come un lungo tribunale, pieno di rischi e di paure. I primi due servi entrano nella vita come in una possibilità gioiosa; l'ultimo non entra neppure, paralizzato dalla paura di uscirne sconfitto. La parabola dei talenti è il poema della creatività, senza voli retorici, perché nessuno dei tre servi crede di poter salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di viti e di olivi o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa. Di semplicità e concretezza. Ciò che io posso fare è solo una goccia nell'oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita (A. Schweitzer). Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l'estate feconda di frutti. Leggiamo bene il seguito della parabola: Dio non è un padrone che rivuole indietro i suoi talenti, con in aggiunta quelli che i servi hanno guadagnato. Ciò che i servi hanno realizzato non solo rimane a loro, ma è moltiplicato un'altra volta: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». Il padrone non ha bisogno di quei dieci o quattro talenti. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: e questo accrescimento, questo incremento di vita, questa spirale d'amore crescente è l'energia segreta di tutto ciò che vive. Noi non viviamo semplicemente per restituire a Dio i suoi doni. Ci sono dati perché diventino a loro volta seme di altri doni, lievito che solleva, addizione di vita per noi e per tutti coloro che ci sono affidati. Non c'è neppure una tirannia, nessun capitalismo della quantità. Infatti chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi che ne consegna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Non ci sono dieci talenti ideali da raggiungere: c'è da camminare con fedeltà a ciò che hai ricevuto, a ciò che sai fare, là dove la vita ti ha messo, fedele alla tua verità, senza maschere e paure. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura della vita, perché la paura paralizza, perché tutto ciò che scegli di fare sotto la spinta della paura, anziché sotto quella della speranza, impoverisce la tua storia. La pedagogia del Vangelo offre tre grandi regole di maturità: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. Soprattutto da quella che è la paura delle paure, la paura di Dio.

Io:
- il valore del talento (moneta pari a circa 26 Kg di argento, guadagno di circa 20 anni di lavoro "ordinario");
- di fronte ad un bene così ampio non importa se i talenti affidati siano 1 o 2 o 5, ma l'uso che ne viene fatto (e il rapporto di fiducia col padrone);
- il terzo servo, quello che riceve 1 talento, formalmente non ha nessuna colpa: riceve un talento e, al ritorno del padrone, è pronto a riconsegnarlo. Per fare questo lo ha messo al sicuro nascondendolo sotto terra;
- qual'è il problema? Cosa fa di lui un servo "malvagio e pigro" meritevole di "pianto e stridore di denti"?
- Per rispondere occorre riflettere su cosa rappresenti il simbolo del talento: cosa riceviamo di inestimabile valore? Si, la vita stessa. E' di questa che ci viene chiesto conto: "Cosa hai fatto della tua vita"?
- Se la risposta è "Ho avuto paura"... "l'ho nascosta sotto terra"... te la restituisco così come me l'hai data, senza avergli dato uno scopo, un senso, nè per me nè per gli altri, inerte, sterile, vuota... ci stupiamo allora della risposta dura del padrone?
- "Ho avuto paura di te...": ricorda un'altra paura biblica: quella di Adamo dopo il peccato. Era in armonia con Dio, con Eva, con il creato. Dopo il peccato originale questo rapporto si rompe, ha improvvisamente paura della sua nudità e per questo si nasconde; Dio diventa un avversario duro di cui avere paura, la donna qualcuno su cui scaricare le colpe, il creato un motivo di fatica e sudore.
- Gli altri servi sono invitati a prendere parte della sua gioia, ad avere autorità su molto (non importa se ha guadagnato 2 o 5 talenti: la risposta e la promessa è la stessa). Si sono sentiti in dovere e forse nel piacere di far fruttificare i talenti ricevuti. Si sono comportati più da figli che da servi e ora vengono ricambiati come figli più che come servi.

giovedì 3 novembre 2011

Matteo 25, 1-13: LE VERGINI STOLTE E SAGGE

XXXII domenica Tempo ordinario Anno A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora».

Ermes Ronchi:
Ecco lo sposo! Andategli incontro! In queste parole trovo l'immagine più bella dell'esistenza umana, rappresentata come un uscire e un andare incontro. Uscire da spazi chiusi e, in fondo alla notte, lo splendore di un abbraccio. Dio come un abbraccio. L'esistenza come un uscire incontro. Fin da quando usciamo dal grembo della madre e andiamo incontro alla vita, fino al giorno in cui usciamo dalla vita per incontrare la nostra vita, nascosta in Dio.
Il secondo elemento importante della parabola è la luce: il Regno di Dio è simile a dieci ragazze armate solo di un po' di luce, di quasi niente, del coraggio sufficiente per il primo passo. Il regno di Dio è simile a dieci piccole luci, anche se intorno è notte. Simile a qualche seme nella terra, a una manciata di stelle nel cielo, a un pizzico di lievito nella pasta. Ma sorge un problema: cinque ragazze sono sagge, hanno portato dell'olio, saranno custodi della luce; cinque sono stolte, hanno un vaso vuoto, una vita vuota, presto spenta. Gesù non spiega che cosa sia l'olio delle lampade. Sappiamo però che ha a che fare con la luce e col fuoco: in fondo, è saper bruciare per qualcosa o per Qualcuno. L'alternativa centrale è tra vivere accesi o vivere spenti. Dateci un po' del vostro olio perché le nostre lampade si spengono... la risposta è dura: no, perché non venga a mancare a noi e a voi. Il senso profondo di queste parole è un richiamo alla responsabilità: un altro non può amare al posto mio, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me. Se io non sono responsabile di me stesso, chi lo sarà per me? Parabola esigente e consolante.
Tutte si addormentano, sagge e stolte, ed è la nostra storia: tutti ci siamo stancati, forse abbiamo mollato. Ma nel momento più nero, qualcosa, una voce una parola una persona, ci ha risvegliato. La nostra vera forza sta nella certezza che la voce di Dio verrà. È in quella voce, che non mancherà; che verrà a ridestare da tutti gli sconforti; che mi rialza dicendo che di me non è stanca; che disegna un mondo colmo di incontri e di luci. Dio non ci coglie in flagrante, è una voce che ci risveglia, ogni volta, anche nel buio più fitto, per mille strade. A me basterà avere un cuore che ascolta, ravvivarlo come una lampada, e uscire incontro a un abbraccio.

Nel tempo dell'attesa il cristiano si prepara all'incontro, alimentando la lampada della fede con l'olio della carità, della preghiera e dell'ascolto della Parola di Dio, diviene "discepolo della Sapienza" (I Lettura), sempre assetato di Dio e della sua verità.
Come è accaduto alle vergini sagge che hanno saputo conservare dell'olio per i momenti tenebrosi (Vangelo), anche per ciascuno di noi si impone di vigilare nello spirito, perché l'armatura della fede possa proteggerci di fronte alla tentazione di assopirci in una vita mediocre e continuamente oppressa dal peccato.
Tiberio Cantaboni

- vita come uscita e incontro con lo sposo, come buio e luce (sufficiente per il passo successivo);
- l'esempio della beata Chiara Luce Badano (che si prepara all'incontro con lo sposo);
- tutte si addormentano: non basta la buona volontà di restare vigilanti: occorre la fede, la carità che ci risveglia e illumina nel momento dell'incontro (quando ci verrà chiesto: mi hai amato? Nei più piccoli mi avete visitato, vestito, accudito con amore e per amore?);
- non si può delegare nel momento dell'incontro: l'olio della fede e della carità non è in vendita: è donato, ma và accolto e conservato con cura.

mercoledì 2 novembre 2011

Mt 8, 23-27: Una fede insufficiente

«In quel tempo, essendo Gesù salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: "Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: "Perché avete paura, uomini di poca fede?". Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: "Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?"» (Mt 8, 23-27).

Carlo Maria Martini:
Abbiamo già citato la pagina evangelica della liturgia di oggi, quando abbiamo sentito Paolo ricordare a Timoteo che non gli è stato conferito uno spirito di timore, di viltà o di smarrimento (deilias). E ritroviamo infatti nel racconto evangelico la stessa radice greca: «Perché avete paura?», perché siete timidi, vili, smarriti? Il brano evangelico odierno ci aiuta ad approfondire che cosa significa l'attitudine pratica a ricondurre tutto al primato di Dio e di Cristo.

Paura nella tempesta

Ci troviamo di fronte allo scatenarsi nel mare di un «sisma» - dice il testo greco -, un movimento così violento che la barca era coperta dalle onde. Una tempesta è una situazione negativa incontrollabile, a cui umanamente non si sa come fare fronte. Essa può significare una situazione incontrollabile interiore, quando si entra in una sarabanda, in una fantasmagoria di emozioni negative, di angosce, di ira, di frustrazione, di ripugnanza, di disperazione da cui non si sa più come salvarsi; si è in balìa di qualcosa di più forte di noi, che non si sa come padroneggiare.

Può indicare pure una situazione esteriore sociale, civile, ecclesiastica, una situazione di forze contrastanti impazzite, che agitano da ogni parte la nostra barca, sia essa la nostra persona o la nostra comunità o gruppo sociale o nazione. Di queste tempeste, di tali forze impazzite contrastanti è piena la storia, anche contemporanea. Così per esempio la situazione della ex Jugoslavia o di alcuni Paesi del Centro Africa.

In una simile realtà, nella quale sono entrati gli apostoli, Gesù dorme e poi, svegliato, grida: «Perché avete paura, uomini di poca fede?». Rimprovera così la stessa viltà e sconforto che abbiamo visto rimproverati a Timoteo da parte di Paolo. E comprendiamo che questa paura e viltà sono relative alla poca fede, sono frutto di poca fede. Gesù non accusa semplicemente il distacco fede-vita; piuttosto la poca fede, la fede scarsa, insufficiente, più piccola di quel grano di senapa che sposta le montagne.

La poca fede

In che cosa consiste la poca fede, che poi genera paura (paura vana - dice Gesù -, pur di fronte a tempeste che apparentemente non si possono dominare)? Possiamo identificarla col volersi salvare da soli, col non riconoscere il primato di Dio come salvatore; e quindi col collocare direttamente, di fatto (anche se è altrimenti a parole), ogni speranza in se stessi. La fede è allora solo in fondo, come uscita di sicurezza, se proprio le cose van male.

Così hanno fatto gli apostoli: prima hanno messo ogni speranza nelle proprie forze, si sono fidati di farcela - altrimenti non avrebbero affrontato il mare -; alla fine, quando le cose non vanno, viene anche l'invocazione a Gesù. E esattamente il contrario del primato di Dio, è l'ul-timità di Dio. Non si è cominciato da lui, ma si arriva a lui per disperazione.

Dunque il riconoscimento del primato di Dio è appunto la fede. Intendere la fede che Gesù chiede come l'attesa di una salvezza dalla tempesta comunque, non sarebbe credere, ma tentare Dio. Gesù aveva rifiutato di gettarsi dal pinnacolo del tempio aspettandosi di essere in ogni caso salvato, perché avrebbe significato tentare Dio (cfr. Mt 4). E la stessa esperienza degli apostoli ci dice che Dio non li salverà, un giorno, dalla morte. Ciò che Dio promette è la salvezza dal timore della morte: «Non temete coloro che possono uccidere il corpo» {Mt 10,28).

L'affermare il primato di Dio, non consiste nel ritenere che Dio comunque penserà a darmi la salvezza che attendo. E non consiste neppure nel rifiuto di darsi da fare; Gesù non rimprovera gli apostoli perché si sono dati da fare con la barca, con i remi. Rimprovera qualcosa di molto più sottile, delicato e fine, non riducibile a formule.

«So a chi ho creduto»

Che cosa chiede allora Gesù in positivo, come vera fede, fede non piccola? Lo possiamo esprimere ancora con le parole della seconda Lettera a Timoteo: «So a chi ho creduto» (1, 12). Non aspetto la salvezza comunque; non cesso di darmi da fare; né mi impegno, mettendo Dio per ultimo. Fin dall'inizio so a chi ho creduto e per questo fin dall'inizio vivo senza sosta e con pace la mia lotta contro ogni forma di autogiustificazione, nella certezza che anche le situazioni apparentemente insostenibili, incontrollabili, sono realtà in cui Dio ci ha posto.

Ecco la grazia della fede che domandiamo per noi e che chiediamo di trasmettere, quella che ci dà pace, ci conforta nelle tribolazioni, ci accompagna nelle oscurità, ci sostiene nelle debolezze e nelle frustrazioni; ci permette di affrontare le tempeste della vita, della Chiesa, del ministero, della vita sociale, economica e politica, non con ricette già preparate, ma con il cuore pacificato dal riconoscimento del primato di Dio. E tale primato che la liturgia ci invita oggi a riconoscere dando a Dio solo onore, lode e gloria per mezzo di Gesù Cristo e della sua morte e risurrezione.