giovedì 29 settembre 2011

Mt 21,33-43: I VIGNAIOLI OMICIDI

XXVII del T.O/A

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

IO:
Ancora una PARABOLA e ancora una volta sul tema della VIGNA, immagine cara alla Scrittura: sempre rivolgendosi ai capi del popolo di Israele ha loro raccontato domenica scorsa la parabola dei 2 figli un po’ restii a collaborare per lavorare nella vigna e 2 domeniche fa ci ha presentato la parabola dei braccianti che, presi a giornata, ricevono la stessa paga indipendentemente dalle ore di lavoro fatto.
Ci mostra in tutte e tre i racconti l’amore di Dio che ha cura della sua vigna e la risposta molto fredda, fatta spesso di mormorazioni e critiche, dei contadini che, nel brano odierno, arrivano al rifiuto completo e violento, persino omicida, del padrone e del figlio.

Gesù si rivolge a chi ha il compito di custodire la vigna, ai capi del popolo, ma si rivolge oggi anche a noi per aiutarci a comprendere un messaggio importante per la nostra vita. Quale?

- Innanzitutto ci ricorda l’AMORE di DIO per ciascuno di noi, parte della sua VIGNA e lo fa descrivendo la CURA che ha per la sua vigna, pianta che richiede particolari attenzioni: la protegge con una siepe, vi scava una buca per mettervi il torchio (e così spremere l’uva e produrre vino), vi costruì una torre, posto di avvistamento e di riparo per chi lavora nella vigna. Isaia arricchisce queste immagini con un cantico d’amore appassionato tra Dio e la sua vigna.

- Ci ricorda inoltre che la vigna, il popolo di Dio, non ci appartiene: noi siamo proprietà di Dio, apparteniamo a lui, ma siamo recalcitranti di fronte a chi sembra limitare la nostra libertà: ci poniamo di fronte a Dio come davanti ad un padrone che ci sfrutta, sfrutta il nostro lavoro, vuole solo il suo tornaconto (i frutti che i contadini dovevano al proprietario della vigna). Da qui la mormorazione, la contesa, la messa in discussione dell’opera del Signore.

- Ecco allora, in maniera molto amara, la rilettura della storia di Israele come una storia d’amore tra un Dio fedele e l’infedeltà del suo popolo che maltratta e uccide gli inviati dal Signore, i profeti, fino a meditare la morte del Figlio stesso (e Gesù si trova nell’ultima fase della sua vita terrena, ben consapevole dell’imminente e tragico finale).

- Si vuole l’eredità: la possibilità di non rispondere ad altri che a noi stessi, di fare senza Dio, senza padroni. Senza renderci conto che così facendo ci vendiamo ad altri padroni di turno: capi politici od economici, o, in maniera più sottile, ma più efficace vendendoci ad un sistema politico-economico che ci vuole consumatori vogliosi di cose che perdono subito il loro fascino e rimbambiti da tutto ciò che ci fa perdere di vista i nostri veri valori e bisogni. Si arriva così non solo a non compiere il bene, ma ad impedire ad altri di compierlo.

- Il messaggio è amaro e apparentemente negativo: la vigna dovrà essere tagliata (così Isaia) o affidata ad un nuovo popolo che produca i frutti (così conclude Gesù la parabola). Eppure l’obiettivo finale non è la vendetta, ma l’invito a prendere coscienza delle proprie infedeltà. Il perdono infatti non può essere accordato in modo unilaterale, senza coinvolgere l’altro in una dinamica di riconciliazione: senza pentimento non c’è disponibilità a cambiare e dunque a ricevere il perdono.

- «Cosa farà il padrone della vigna, dopo l’uccisione del Figlio?». La soluzione proposta dai Giudei è logica: una vendetta esemplare, nuovi vignaioli, nuovi tributi. La loro idea di giustizia è riportare le cose un passo indietro, ritornare a prima del delitto, mantenendo in­tatto il ciclo immutabile del dare e dell’avere.
Ma Gesù non è d’accordo e intro­duce la novità propria del Vange­lo. Il sogno di Dio non è il tributo pagato, ma una vigna che non ma­turi più grappoli rossi di sangue e amari di lacrime, ma grappoli gon­fi di sole e di luce. Per questo è ve­nuto Cristo, vite e vino di festa. Su di lui mi fondo, in lui mi innesto, di lui mi disseto, di lui godo. (Ermes Ronchi)

- Gesù mostra un Dio, padrone appassionato, che nonostante i rifiuti e la violenza, riesce ugualmente a portare avanti la sua azione a nostro favore. Trova un nuovo popolo a cui affidare la vigna e ne produca finalmente frutti da condividere nella gioia (il vino è da sempre simbolo di convivialità e di ebbrezza).

- E noi: siamo consapevoli dell’amore appassionato di Dio senza sentirci defraudati di qualche cosa? Siamo disponibili a lavorare nella vigna del Signore e dunque a vivere da veri cristiani nei nostri ambienti: scuola o lavoro, amici, famiglia, parrocchia, società? o ci lasciamo guidare in maniera passiva da altri padroni dimenticando o rinnegando la nostra fede?

Ancora una volta la conclusione è affidata alle parole di Paolo ascoltate nella seconda lettura: non state ad angosciarvi per le difficoltà della vita, imparate piuttosto ad affidarle e ad affidarvi a Dio con “preghiere, suppliche e ringraziamenti”. Mettete al centro della vostra vita, dei vostri pensieri ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode e lasciate perdere tutte quelle cose che, sapete bene, non meritano rispetto, ma che ci seducono e ci incatenano per gran parte del nostro tempo. Attenzione allora a ciò che vedete, sentite, leggete. Attenzione soprattutto a mettere in pratica ciò che di buono abbiamo imparato, ricevuto e ascoltato da Dio e da coloro che Dio ci mette accanto. Solo così il Dio della pace sarà con voi e la vostra vita ritroverà serenità e entusiasmo nonostante tutto. E così sia.

mercoledì 21 settembre 2011

Mt 21,28-32: I DUE FIGLI

XXVI T.O./A
Letture
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

Io:
Quante volte i genitori (per non parlare dei nonni) si lamentano perché i loro figli sono disobbedienti, scontrosi, indisponibili e indisponenti. E quante volte i figli, confessandosi, riconoscono la loro disobbedienza verso i genitori mostrandosene in qualche modo pentiti.
Gesù prende spunto da quell’episodio universale ed eterno: succedeva in Palestina al suo tempo come succede da noi oggi. Da sempre ci sono rapporti conflittuali tra genitori e figli. Perché?

Ogni figlio crescendo cerca la sua indipendenza, ha bisogno di sentirsi grande, non accetta di sottomettersi: impara presto a dire NO alle richieste dei genitori. Quei no sanno di libertà, di indipendenza. Ma costano: ci fanno sentire cattivi e spesso portano a rotture forti con chi ci vuole bene, nonostante tutto. E allora anche noi sperimentiamo quello che Gesù ci ha raccontato: diciamo dei sì che si trasformano in no (si si, poi lo faccio, ma guarda caso quel poi si sposta sempre in avanti) e diciamo dei no che si trasformano in si, perché poi ci pentiamo. In noi ci sono entrambi i figli che lottano tra loro. Spesso vince il primo, ma a volte vince il secondo.

A Dio non piacciono gli uomini simili ai farisei, cioè come quelli che si sentono perfetti, migliori, che a parole sembrano molto religiosi e poi fanno i loro comodi. Egli preferisce coloro che, anche sbagliando, cercano ciò che è buono e li fa felici e quando si accorgono che sono andati fuori strada sono disposti a cambiare vita. E conclude dicendo ai farisei che i peccatori sono più vicini di loro a Dio[1].

I ragazzi che stanno crescendo e maturando verso l’età adulta non sopportano di essere sottomessi come quando erano bambini (e già a pochi anni vogliono essere chiamati ragazzi, non sopportano più di essere chiamati bambini). Vogliono decidere da soli cosa è bene per loro. È il cammino della conquista della libertà di fronte a tutte le persone con cui sono in relazione. In fondo stanno cercando ciò che gli piace e li rende felice.

La difficoltà è capire che dopo i no, si cerchi davvero ciò che è giusto e lo si faccia perché ci si crede. Come il primo figlio della parabola, che ha detto di no perché voleva essere libero e poi liberamente è andato a lavorare nella vigna, perché ha capito e creduto che fosse una cosa buona anche per lui. La difficoltà è soprattutto capire che non c’è concorrenza tra i genitori e i figli, tra Dio che è Padre e tutti gli uomini, suoi figli. I genitori e tanto più Dio non sono degli sfruttatori che cercano il loro tornaconto, che spadroneggiano sui figli. Vogliono anche loro che siano persone mature, felici. E sanno per esperienza che i figli vanno aiutati in questo.

La libertà non è essere liberi di fare qualunque cosa che ci venga in mente, ma essere liberi di fare ciò che realmente ci rende felici. Essere liberi dai condizionamenti che ci tengono legati, che ci bloccano. Quante volte sperimentiamo (anche noi adulti, così come afferma lo stesso Paolo) di fare quello che in realtà non vorremmo, e di non riuscire a fare ciò che sappiamo essere la cosa migliore per noi. Quante volte ci ritroviamo pigri e rimbambiti davanti alla TV o al computer incapaci di affrontare i nostri compiti con entusiasmo. Ma guai a chi ci dice di staccarci da queste cose, guai a chi ci vorrebbe aiutare ad utilizzarli con maggiore intelligenza ponendoci limiti e freni: sembra che voglia attentare alla nostra libertà, che voglia solo imporre il proprio potere. Anche se in fondo sappiamo che vuole solo aiutarci a vivere in maniera più libera.

Ancora una volta Gesù ci mette davanti a questa incoerenza: l’incoerenza di chi sa che Dio ci ama, ma risponde con fastidio al suo invito di collaborare nella Vigna, cioè a fare la nostra parte per migliorare il nostro mondo, la scuola, il rapporto con i genitori e gli amici, il lavoro, la società, la Parrocchia. Entrambi i figli sono infastiditi da questo invito. Eppure è l’invito a costruire un mondo in cui vivere più felici, un mondo in cui si possa tutti condividere i frutti della Vigna. E che soddisfazione raccogliere i frutti del nostro impegno!

Questo è ancora una volta il primo motivo di conversione: essere consapevoli che Dio vuole il nostro bene e che lavorare per lui e con lui è l’opportunità più grande per essere felici e liberi.

Il secondo motivo è quello di una coerenza tra il dire e il fare: se diciamo una cosa e poi facciamo l’opposto siamo degli ipocriti. Meglio disobbedire, ma poi pentirsi e fare, che apparire bravi per poi, quasi di nascosto disobbedire. I farisei rappresentano coloro che vogliono farsi vedere come i migliori, i bravi. I ladri e le prostitute sono invece dei peccatori che non possono nascondere il loro sbaglio. Eppure sono stati i primi, di fronte a Gesù, ad accogliere l’opportunità di cambiare vita e di aderire alla sua proposta. Gli altri sono rimasti freddi, anzi, i più si sono messi in contrasto con Gesù, perché metteva in luce la loro ipocrisia. Non hanno accolto l’invito di Gesù.

Di conseguenza (ed è il terzo motivo di conversione): si sentono superiori ai peccatori, li disprezzano, li guardano dall’alto al basso. Non riconoscendo di essere ben più in torto rispetto a chi, pur avendo evidentemente sbagliato, si pente e cambia vita.

Scrive S.Paolo: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”. E così sia!

[1] “Gesù sapeva bene che tutti gli uomini sono peccatori: ma qual è il motivo della sua preferenza per la compagnia dei peccatori pubblici? Chi pecca di nascosto non è mai spronato alla conversione da un rimprovero che gli venga da altri, perché continua a essere stimato per ciò che della sua persona appare all’esterno: questa è la malattia della maggior parte delle persone, tra le quali primeggiano quelle devote, che disprezzano gli altri considerandoli immersi nel peccato, mentre ringraziano Dio per la loro pretesa giustizia.
Chi invece è un peccatore pubblico si trova costantemente esposto al biasimo altrui, e in tal modo è indotto a un desiderio di cambiamento: nel pentimento che nasce da un «cuore spezzato» (Sal 34,19) egli può divenire sensibile alla presenza di Dio, quel Dio che non vuole la morte del peccatore, ma piuttosto che si converta e viva.
È proprio in forza di tale consapevolezza che Gesù amava sedere a tavola con i peccatori manifesti, condividere con loro questo gesto di estrema comunione”. (Enzo Bianchi)
Alberto Maggi: commento

giovedì 15 settembre 2011

Matteo 20,1-16: GLI OPERAI DELLA VIGNA

Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?».

Io:
Chi è Dio? Cosa vuole da noi?
Dio (e di conseguenza il suo regno) «… è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna»: così si apre la parabola odierna che, mentre rivela la distanza tra il pensiero di Dio e quello di noi uomini, ci invita a colmarla, assumendo i sentimenti di Dio narrati da Gesù.
Dio è un padrone, ma non secondo i nostri criteri: non cerca di spadroneggiarci, non cerca, come gli imprenditori di ogni tempo di ricavare il massimo guadagno concedendo il minimo possibile. Addirittura non segue neanche la nostra idea di GIUSTIZIA: una giustizia meritocratica dove chi più lavora, chi più si impegna più riceve. Anzi sembra provocarci e scatenare le nostre proteste o almeno molte perplessità.
Il padrone della vigna si accorda con gli operai per un denaro al giorno; poi esce a più riprese sulla piazza e assolda altre persone disoccupate, rispettivamente alle nove, a mezzogiorno, alle tre e alle cinque del pomeriggio. Con tutti quelli ingaggiati più tardi, egli non pattuisce la paga, ma si limita a dire: «Andate anche voi nella mia vigna, quello che è giusto ve lo darò». Venuta la sera, il padrone incarica il suo fattore di pagare gli operai, «incominciando dagli ultimi». Quelli delle cinque del pomeriggio ricevono un denaro. «Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più»: è un calcolo umanissimo, ma è un atto di presunzione, che dimentica quanto il padrone aveva pattuito con loro. Infatti: «Anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno».
Dio è un padrone che ha a cuore il bene delle persone: conosce il dramma di una vita senza senso, di chi si trova senza un ideale, una occupazione che offra motivo per impegnarsi.
La risposta che danno questi ultimi lavoratori al suo invito (“nessuno ci ha ingaggiati”) fa pensare a tanti, giovani e meno giovani, disoccupati, non solo o non tanto nel lavoro remunerato, quanto nel lavoro per costruire una vita solidale. Sono tanti i disoccupati in questo senso: sono quei giovani che, magari disillusi oppure soggiogati dal consumismo, si ripiegano su se stessi, allo stesso tempo vittime e responsabili di altrettanto degrado umano. Sono probabilmente così anche perché “nessuno li prende a giornata”.
Gesù vuole mostrare l’agire del Padre, la sua bontà, la sua magnanimità, la sua misericordia, qualità che superano il comune modo di pensare degli uomini. Lo superano davvero quanto il cielo dista dalla terra. Lavorare per il Signore, per il Vangelo, per la vita è già una grande ricompensa. Questa straordinaria bontà e misericordia crea mormorazione e scandalo.
Dio non fa ingiustizia a nessuno. È la larghezza della sua bontà che lo spinge a donare a tutti secondo il loro bisogno (la paga di una giornata, il necessario per una vita dignitosa). La giustizia di Dio non risiede in un astratto principio di equità, ma si misura sul bisogno dei suoi figli. Questa parabola ci spinge a considerare quale grande sapienza risieda nella via che il Signore ci indica. La ricompensa consiste nell’essere chiamati a lavorare per la vigna del Signore e nella consolazione che questa chiamata genera. Non importa in quale stagione della vita siamo stati presi a giornata nella vigna del padrone della vita.
Dall’altra parte ci siamo noi, operai della prima ora che non riescono a celare il disappunto. E anziché esprimere il dissenso in modo franco e leale, mormorano contro il padrone. Il contenuto della lamentela è ispirato alla logica perversa del confronto con gli altri: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi». Ciò che non riescono a sopportare, non è tanto la mancata corrispondenza tra lavoro compiuto e ricompensa, quanto l’uguaglianza del trattamento, il pensiero che altri venuti dopo siano stati oggetto della benevolenza del padrone: «Tu li hai fatti uguali a noi», dicono, letteralmente.
Il fatto di lavorare nella vigna del Signore non è da noi, lavoratori della prima ora, compreso come una fortuna, ma piuttosto come un dovere che a volte pesa (“noi abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”) e che deve avere un contraccambio, deve garantirci un privilegio. Non pensiamo all’angoscia che prova chi sta sulla strada senza nessuno che lo chiami, alla fatica, al vuoto interiore di chi attende di incontrare Dio fino alle cinque del pomeriggio, fino alla fine della sua vita. Piuttosto pensiamo che siano più fortunati di noi, che chi arriva al Signore alla fine della sua vita si è divertito e poi viene “premiato” come noi (pensiamo anche al fratello maggiore del figliol prodigo, incapace di condividere la gioia del Padre per aver riavuto un figlio che ormai credeva perduto, morto).
«Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te... Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». In questa domanda è racchiusa la matrice profonda dell’invidia, sentimento che consiste nell’avere un occhio cattivo verso l’altro, fino a non volerlo più vedere e a desiderarne la scomparsa. Quella che sembra una giusta rivendicazione sindacale viene smascherata dal padrone della vigna come invidia: l’invidia dell’uomo che si ritiene giusto e stigmatizza gli altri e Dio. Il suo unico arbitrio è la libertà di amare senza limite, gratuitamente e senza condizioni: e chi siamo noi per ostacolarlo?
Preghiamo piuttosto il Padre perché ci faccia comprendere “l’impagabile onore di lavorare nella sua vigna fin dal mattino” (colletta). Lungi dall’essere un dovere faticoso, è un privilegio e una gioia lavorare per il Signore, una fortuna immeritata della quale dovremo rendere conto, se non sapremo adeguatamente sfruttarla.
All’inizio di questo nuovo anno pastorale abbandoniamo allora ogni indugio nel rinnovare l’impegno per la comunità cristiana e per Dio: quello che oggi sembra essere un peso possa trasformarsi in gioia che contagia i troppi lavoratori rimasti disoccupati sulla strada in attesa di qualcuno che li inviti e li motivi a lavorare per il regno di Dio[1].

J. Ratzinger, Messa per l’elezione del Papa:
Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio.
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[1] Così ha fatto Paolo (2° lettura) il quale, nonostante si trovi in carcere desideroso di porre fine alla sua testimonianza osteggiata, continua a incoraggiare le persone a lui affidate, le stimola, corregge, le pungola per superare stanchezze e limiti personali, sempre invitandole alla ricerca del Signore.

Alberto Maggi:
http://www.ildialogo.org/cEv.php?f=http://www.ildialogo.org/esegesi/AMaggi_1315991652.htm

martedì 13 settembre 2011

Giovanni 6, 66-69: SIGNORE, DA CHI ANDREMO?

Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai dodici: volete andarvene anche voi? Rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio.

Ermes Ronchi:
La svolta del racconto avviene con le parole di Gesù: "Forse volete andarvene anche voi?". C'è tristezza in queste parole: Gesù è ben consapevole di una crisi tra i suoi seguaci.
Ma c'è anche fierezza e sfida, e soprattutto un appello alla libertà di ciascuno: 'siete liberi, andate o restate, ma seguite quello che sentite dentro, scegliete!' Gesù non dice quello che devi fare, quello che devi essere, ma ti pone le domande del cuore: che cosa accade in te? Quale è il tuo desiderio profondo? Tu vuoi la vita? Cerchi più vita? Le sole domande in grado di guarire davvero.
E Pietro si sente interpellato da questo decreto di libertà, e risponde subito:
da chi andremo? tu hai parole di vita eterna.
Vorrei scavare dentro questa risposta, aprire la conchiglia perché appaia la perla, perché sento che qui ha radice la fede:
Tu solo hai parole che fanno viva finalmente la vita.
Il filo d'oro di tutto il capitolo 6 di Giovanni, è: la parola 'vita'.
Per sette volte ha ripetuto che mangiare la sua carne fa vivere. La convinzione fortissima di Gesù è questa: io faccio vivere, io possiedo il segreto della vita.
È l'incalzante convinzione, da parte sua, di offrire qualcosa che prima noi non avevamo, qualcosa di cui non possiamo fare a meno, qualcosa che inverte il senso della vita orientandola non più alla morte ma all'eternità.
E Pietro ha capito e si pone sulla stessa lunghezza d'onda: io ho fame di vita, per questo non me ne andrò. Io amo la vita, per questo sto con te.
Solo chi ama la vita troverà Dio, e solo chi trova Dio troverà la vita in pienezza.
Che cos'è la Vita secondo la bibbia?
Una realtà composta di sei dimensioni, come una torta a sei strati: ci aiuta la precisione inarrivabile della lingua greca: lo strato di base è
- bios, la vita biologica che si riferisce alla nostra fisiologia,
- zoè, la vita animale, il nostro corpo coordinato nel suo percepire il mondo,
- psychè, il mio carattere , le mie emozioni, il temperamento,
- logos, la razionalità, il calcolo, il progetto,
- nous, l'intelletto, intuizione, andare dentro il senso delle cose
- pneuma, lo spirito, ruah, soffio divino, respiro di Dio, spirito santo.
L'armonia tra questi sei strati fa sì che la vita fluisca ordinata, sana, armoniosa, benefica. Anzi, come dice un verso di Giovanni Paolo II, sia vita che scorre verso l'alto.
Pietro e Gesù si capiscono: e tutto accade perché vita manca, perché vita soffre, perché vita fiorisca, perché il cuore cresca. Sono venuto perché abbiate la vita e la vita in abbondanza (Gv 10,10). Questo è Gesù: nella vita datore di vita. Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano. Un divino cui non corrisponda il rigoglio dell'umano non merita che ad esso ci dedichiamo (Bonhoeffer).
La novità grande del cristianesimo: non più un Dio che domanda agli uomini offerte, doni, sacrifici, come in tutte le religioni, ma un Dio che si dona lui, che si perde dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo, accrescimento d'umano, incremento di vita.
Non più un Dio che chiede sacrifici per sè, ma un Dio che sacrifica se stesso per me. Bellezza e 'scandalo' della nostra fede.
Una potenza di vita che entra in me, come il pane che mangio, e diventa cellula del mio corpo, mio pensiero, mio gesto, mio respiro; come il vino che bevo, e diventa mio sangue, mia lacrima, mio sorriso.
L'uomo a differenza delle altre creature è un animale che ha Dio nel sangue (Vannucci).
Per sette volte Gesù ha ripetuto: Chi mangia me vivrà per me (v.57).
Mangiare la vita di Gesù! Come si può fare? Due sono i modi:
- Nell'eucaristia: il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo(v.51).
- Nella sua Parola: l'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Se accolgo il Pane e la Parola tutta la mia vita diventa sacra, accade una cosa enorme: Dio in me: il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola. Posso mangiare e sentire che compio un atto sacro, di comunione con Dio, con gli uomini, con il creato; sacro è il lavoro e sacro il riposo, sacri i gesti della cura e dell'amore.
Nel Pane e nella Parola ci dà tutta la sua storia: mangiatoia, strade, il lago, il peso e il duro della Croce, il sepolcro vuoto, ci dà Dio che si fa carne in ogni uomo. Se faccio mio il segreto della vita di Gesù, allora trovo il segreto della mia vita.
Il suo segreto era una vita buona bella e beata.
Questa vita ha conquistato Pietro e i discepoli. Era talmente bella, che i discepoli dissero un uomo così non può essere che Dio.
Buona era quella vita, e Pietro lo conferma nel suo primo discorso dopo la Pasqua: passò nel mondo facendo del bene, guarendo il male di vivere, accogliendo sempre, donando tutto di sè: neanche il suo corpo ha tenuto per sé, neanche il suo sangue ha conservato.
Bella perché piena di amici, perché luminosa, perché pulsante di libertà, perchè nuova, intensa e senza paure. Forse tutti, chi più chi meno, soffriamo di imprigionamenti. E il fascino di Gesù uomo libero accende trasalimenti in ognuno di noi. Non ci sono stereotipi che tengano: se tu ti fai lettore attento del vangelo non puoi sfuggire all'incantamento per la libertà di Gesù. Libertà a caro prezzo.
Leggi il vangelo, respiri a pieni polmoni la libertà. Non la fissità dei codici ma il vento che scompiglia le pagine.
La libertà ha un segreto: il segreto è quel pezzo di Dio che è in te, che i veri maestri dello spirito ti invitano a scoprire e ad adorare. Se sei fedele a questo pezzo di Dio, sei libero dalla schiavitù degli altri e delle cose, dalle convenzioni abusate, dai codici senz'anima, dalle aspettative degli altri, dalle immagini che gli altri hanno di te. Per te contano gli occhi del tuo Signore, conta un piccolo pezzo di lui in te.
E beata, cioè felice era la sua vita: era un rabbi che aveva la gioia di vivere, che amava i banchetti e i fiori del campo, che sapeva godere delle belle pietre del tempio e del profumo delle vigne, dell'abbraccio dei bambini e delle carezze sui suoi piedi della donna peccatrice.
La vita del cristiano è la vita bella, buona e beata, perché così era la vita di Gesù: buona bella e beata.
Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
«Tu solo». Ed esclude un mondo intero di illusioni e di seduzioni. Tu solo, nessun altro c'è al centro della speranza, nessun altro a fondamento del cuore.
«Tu solo hai parole», non solo le pronunci, non solo le ripeti, ma le hai, sono tue, sei tu la loro sorgente e la loro casa.
Cosa povera e splendida è la parola: solo un vapore del vento, ma sa spalancare la pietra del sepolcro, apre strade, cuori, incontri; apre carezze e incendi. Disegna mondi. È la Parola che dall'inizio crea. Che arde nei profeti, che si fa carne in Maria.
«Tu hai parole di vita», vita a 360 gradi.
Parole che danno vita al cuore, che allargano, dilatano, purificano il cuore perché ne sciolgono la durezza e lo fanno coraggioso e capace di più amore, di un amore sempre meno selettivo.
Parole che danno vita alla mente, perché la mente vive di libertà, altrimenti si disidrata; vive di verità, altrimenti si ammala e non sa più distinguere tra effimero ed eterno; vive di senso. Chi non trova un senso alla vita entra nella malattia.
Parole che danno vita allo spirito, a questa anima assetata, e portano dentro di me la voce di Dio che placa la sete e poi la suscita ancora, portano dentro di me il respiro di Dio e i suoi sogni.
Parole che danno vita anche al corpo, a questo grumo di terra attraversato come una spada dal soffio che ha dato vita ad Adamo, portano una vitalità, una profondità unica in tutto ciò che faccio e dico e costruisco. Portano bellezza e armonia.
Ho visto gente, gettare oltre sé, a manciate, a palate, le ore della loro vita, le energie, le capacità, farle scorrere fuori di sè, per i figli amici poveri parrocchia. E guardate, ho visto queste persone diventare e restare belle, vitali giovanili, sorridenti, circondate da affetto. Hanno trovato la vita! Hanno il cuore giovane. Invece (M. Delbrel) la vera vecchiaia è l'egoismo. È la legge della fisica dell'amore: se dai ti arricchisci, se trattieni ti impoverisci, e invecchia la vita.
«Parole di vita eterna» la cosa più seria e forte che Gesù è venuto a portarci è la vita eterna, eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore, un amore in grado di attraversare l'eternità.
Nulla mai ci separerà dall'amore di Dio (Rom 8,38-39). Nulla mai. Due parole assolte totali perfette. Nulla e sono convocate tutte le creature. Mai e sono convocati i giorni e l'eterno. L'uomo è indissolubile da una sola cosa: dall'amore.
Per questo Giovanni può dire: noi abbiamo creduto all'amore (1Gv 4,15). I cristiani sono quelli che credono all'amore. Non si crede ad altro. E questo molto importante, perché credere all'amore è possibile a tutti, a chi crede e a chi non crede. Ci possiamo incontrare tutti in questo che è il nome stesso di Dio.
E un giorno noi saremo simili a Lui, ci sarà dato in dono il cuore stesso di Dio, ameremo con il cuore di Dio. È straordinario: noi che abbiamo tanto faticato per imparare ad amare, un giorno ameremo con il cuore stesso di DIO.
Tu hai parole che portano in me il cuore di Dio. Intensificazione di questo mio cuore. Più Dio in me equivale a più io.
Acquisire fede che cos'è? è acquisire bellezza del vivere: scoprire che è bello vivere, è bello amare, creare, generare, mettere la vita nelle mani di chi mette la sua vita nelle tue mani. È bello per me essere frate, o prete, o suora, è bello essere giovane e anziano, perché la vita ha senso, il senso della vita è positivo, lo è qui, e lo sarà per sempre.
Acquisire fede è reincantare la vita. Vita non fatta solo di respiri, ma soprattutto dei momenti che ti hanno tolto il respiro.
Volete andarvene anche voi? No, noi non ce ne andremo. Altrove non è vita. Altrove siamo sempre fuori casa.
Io non me ne andrò. Ho tanto cercato ma di meglio di Te non ho trovato. Prima di conoscere te, non esistevo (Ilario di Poitiers).
Io non me ne andrò, perché seguire te è stato l'affare migliore della mia vita.
Non me ne andrò da te, mio Signore e mio Dio.
Mio, come la parte migliore di me.
Mio perché mi appartiene, come il cuore e, senza, non sarei.
Mio come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Come l'amata del Cantico dico: "Il mio amato è per me e io sono per lui". Dio è per me, e io sono per lui.
E queste parole mi fanno dolce e fortissima compagnia: Dio è per me. E nulla, mai ci potrà separare. Nulla, mai.

venerdì 9 settembre 2011

Matteo 18, 21-35: PERDONARE SEMPRE

XXIV Domenica Tempo ordinario - Anno A

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: "Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa". Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: "Restituisci quello che devi!". Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: "Abbi pazienza con me e ti restituirò". Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: "Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?-. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

Ermes Ronchi:
«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L'unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché vivere il vangelo di Gesù non è spostare un po' più avanti i paletti della morale, del bene e del male, ma è la lieta notizia che l'amore di Dio non ha misura.
Perché devo perdonare? Perché devo rimettere il debito? Perché cancellare l'offesa di mio fratello? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio; perché il Regno è acquisire per me il cuore di Dio e poi immetterlo nelle mie relazioni.
Gesù lo dice con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di uno stato: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava...» e il re provò compassione. Il re non è il campione del diritto, ma il modello della compassione: sente come suo il dolore del servo, lo fa contare più dei suoi diritti. Il dolore pesa più dell'oro. Il servo perdonato, «appena uscito», trovò un servo come lui che gli doveva qualche denaro.
«Appena uscito»: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un'ora dopo. «Appena uscito», ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l'esperienza di come sia grande un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: "Ridammi i miei centesimi"», lui perdonato di miliardi! In fondo, era suo diritto, è giusto e spietato. L'insegnamento della parabola è chiaro: rivendicare i miei diritti non basta per essere secondo il vangelo. La giustizia non basta per fare l'uomo nuovo. «Occhio per occhio, dente per dente», debito per debito: è la linea della giustizia. Ma mentre l'uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza. Sull'eterna illusione dell'equilibrio tra dare e avere, fa prevalere il disequilibrio del fare grazia che nasce dalla compassione, dalla pietà.
«Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» Non dovevi essere anche tu come me? Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa. Acquisire il cuore di Dio, per immettere la divina eccedenza dentro i rapporti ordinati del dare e dell'avere.
Perdonare significa - secondo l'etimologia del verbo greco aphíemi - lasciare andare, lasciare libero, troncare i tentacoli e le corde che ci annodano malignamente in una reciprocità di debiti. Assolvere significa sciogliere e dare libertà. La nostra logica ci imprigiona in un labirinto di legami. Occorre qualcosa di illogico: il perdono, fino a settanta volte sette, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica, fino ad agire come agisce Dio.

Alberto Maggi:
Matteo è l’evangelista che, più degli altri, dedica attenzione al tema del perdono. Per questo al capitolo 18 presenta Gesù che indica la necessità del confronto con il fratello che ha peccato, che ha commesso una colpa, e la necessità di ricomporre il dissidio all’interno della comunità. Qualora questo fratello rifiutasse di ricomporre questa unità, deve essere amato come un pubblicano o un peccatore, cioè un amore in perdita, come l’amore al nemico.
Pietro reagisce a questo insegnamento di Gesù, si avvicina e gli chiede: “«Signore, se il mio fratello…»”, quindi si tratta della tematica del perdono all’interno della comunità, “«… pecca contro di me, quante volto dovrò perdonargli?»”
La legislazione rabbinica concedeva un massimo di tre volte per il perdono. Ebbene Pietro pensa di esagerare, raddoppia, e dice: “«Fino a sette volte?»” Quindi Pietro vuole sapere delle regole precise, vuole sapere il limite del perdono. Gesù gli rispose: “«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette»”.
Gesù, con l’espressione “settanta volte sette”, non sta indicando solo la quantità del perdono (illimitato), ma la sua qualità (incondizionato).
E poi Gesù presenta una parabola molto eloquente. Il regno dei cieli, cioè questa nuova realtà che lui è venuto a proporre, è simile a un re che è venuto a regolare i conti con i suoi servi. E’ il re che prende l’iniziativa, e vediamo che lui intende condonare, cancellare i conti. Col termine “servo” in oriente viene definito qualunque dipendente del re. Qui si tratta in realtà di alti funzionari, si vede dalle somme che gestiscono.
“Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti”, una cifra spropositata, una cifra assurda. Infatti un talento equivaleva tra i 26 e i 36 Kg di oro, ebbene diecimila talenti sono circa 300.000 Kg di oro, quindi una cifra incalcolabile, impossibile da restituire. Infatti “poiché costui non era in grado di restituire, l padrone ordinò …”. Non è una cattiveria, ma era il diritto dell’epoca, “… che fosse venduto lui, con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito”. Quindi il re prende l’iniziativa, vede che costui non ha da restituirgli il debito e si rivolge alla prassi normale, quella che è la giustizia. Questo servo supplica il suo re e gli dice: “«Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa»”. Impossibile! Sa che non è possibile restituire ogni cosa perché dal calcolo che si fa ci sarebbero voluti più di 164.000 anni di lavoro per accumulare una cifra del genere.
Quindi il servo sa che non può restituire però chiede al signore di avere pazienza. Ebbene “il padrone ebbe compassione di quel servo”. Questo verbo usato per Dio nell’Antico Testamento e per Gesù nel Nuovo Testamento, indica un’azione di misericordia viscerale da parte di Dio per i suoi figli e di Gesù per i suoi fratelli.
“Lo lasciò andare e gli condonò il debito”, cioè cancellò il debito. Ebbene, “Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari”, una cifra irrisoria. Il denaro era la paga giornaliera di un operaio, quindi cento denari sono circa tre mesi di lavoro, una cifra che è possibile restituire. Ebbene, questo funzionario che aveva visto condonati l’equivalente della bellezza di 300.000 Kg d’oro per un valore di circa 164.000 di lavoro, “lo prese per il collo e lo soffocava”.
Lui che ha avuto restituita la vita dal suo signore la toglie all’altro e gli chiede di restituire quello che gli deve. Ebbene questo suo compagno si rivolge a lui esattamente come questo funzionario si era rivolto al re: “«Abbi pazienza con me e ti restituirò»”. E in questo caso è possibile restituire. “Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione”.
Anziché la misericordia che gli era stata usata lui usa la giustizia. “Visto quello che accadeva i compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo maligno …»”.
E chi è incapace di perdonare semina la morte all’interno della comunità. “«Servo maligno, ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? Sdegnato, il padrone lo diede in mano gli aguzzini finché non avesse restituito tutto il dovuto»”, cioè per sempre.
Perché, come abbiamo calcolato, ci volevano circa 164.000 anni di lavoro, quindi non sarà mai in grado di restituire e va in mano agli aguzzini per sempre. E Gesù aggiunge: “«Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non condonerete»” – non è perdonare, ma condonare, l’iniziativa è del creditore – “«di cuore, ciascuno al proprio fratello»”.
Cosa significa il cuore? E’ frutto della nuova mentalità dove non prevale più la giustizia, ma la misericordia. Richiamandosi a quanto Gesù aveva detto in precedenza sul legare e sciogliere, il significato è questo: il perdono del Padre verso gli uomini rimane legato finché non si scioglie il perdono ai fratelli. Dio ci ha già perdonato, ma questo perdono diventa operativo ed efficace soltanto quando si trasforma in perdono nei confronti degli altri.

domenica 4 settembre 2011

Col.1.24

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa.

Nella prima frase della prima lettura di oggi le traduzioni sono di solito inesatte. L'ha fatto osservare a ragione l'ultimo commento pubblicato sulla lettera ai Colossesi, quello di padre Aletti, professore all'Istituto Biblico. Per migliorare lo stile della frase di Paolo, i traduttori infatti modificano un po' l'ordine delle parole. Sembra poca cosa; in realtà cambia il senso. Traducono: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo". Con questa traduzione fanno dire a Paolo che la passione di Cristo è stata manchevole; manca qualche cosa ai patimenti di Cristo, e Paolo ha l'ambizione di completare ciò che manca. Questa idea non poteva certamente venire in mente a san Paolo. Egli in realtà non parla dei patimenti di Cristo in questa frase. Dice "tribolazioni", il che già indica una sfumatura; ma soprattutto l'espressione "nella mia carne" non si trova prima, ma dopo le parole "che manca alle tribolazioni di Cristo". La frase si deve tradurre: "Completo quello che manca nella mia carne alle tribolazioni di Cristo", oppure: "quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne".Alla passione di Cristo non manca niente, è sufficiente per salvare il mondo intero; però la passione di Cristo deve essere applicata alla vita di ciascun credente e questo comporta una certa dose di tribolazioni: "Dobbiamo soffrire con lui dice altrove san Paolo per poter essere glorificati con lui". Ogni vocazione cristiana comprende quindi una parte di tribolazioni, che deve essere attuata. In questo senso Paolo dice che completa ciò che manca all'applicazione della passione di Cristo nella sua esistenza. E una vocazione alta, questa applicazione alla nostra vita della passione di Cristo. Paolo la vede in modo molto positivo, al punto di dire:"Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi". Egli è convinto della fecondità di questa partecipazione alla passione di Cristo; vede la passione nella luce della risurrezione; sa che la partecipazione alla passione è condizione per partecipare alla risurrezione. Parla quindi di letizia, di gioia anche nelle sofferenze.E non è il solo ad avere questa prospettiva. San Pietro nella sua prima lettera invita tutti i cristiani a rallegrarsi quando hanno parte alle sofferenze di Cristo:"Quando avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, affinché anche quando si manifesterà la sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare".La nostra vocazione cristiana ci porta a riconoscere la grazia nascosta nelle sofferenze e nelle prove della vita, grazia preziosa di unione a Cristo nella sua passione, grazia dell'amore autentico, che accetta di pagare di persona. Se il valore supremo è quello dell'amore autentico, occorre accogliere i mezzi necessari per progredire nell'amore non soltanto con rassegnazione, ma con gioia.Chiediamo allora al Signore di aiutarci a riconoscere la grazia nascosta nei momenti difficili. Se l'apprezziamo al suo giusto valore, potremo dire con san Paolo:"Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa".È chiaro che la partecipazione alla passione di Cristo si fa sempre in un orientamento d'amore. Paolo scrive: "Le sofferenze che sopporto per voi... Completo quello che manca a favore del coTpo di Cristo che è la Chiesa". Soltanto se accogliamo la sofferenza in questa prospettiva di offerta generosa di amore potremo provare in noi la gioia stessa del Signore.

sabato 3 settembre 2011

Matteo 5,1-20: BEATI VOI!

IV del TEMPO ORDINARIO/A

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Leonardo Sapienza: “Dio ha un debole per i deboli”
Contro quelli che pensano che oggi per farsi valere, bisogna apparire, Dio dice: “Cercate la giustizia, cercate l’umiltà” (I lettura).
Contro quelli che hanno il “complesso del padreterno”, san Paolo dice: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (II lettura).
Contro quelli che pensano di essere indispensabili nella società, Gesù dice: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Vangelo)

Beati voi/beati loro!
E’ una esclamazione che utilizziamo riferendola ai ricchi, ai famosi, ai potenti. Gesù la usa in modo opposto, paradossale, indicando coloro che a prima vista sono l’opposto della nostra idea di felicità, di realizzazione umana: beati voi poveri, miti, che avete fame e sete di giustizia, puri…
Chi ha ragione? Gesù e la schiera di “beati” riconosciuti tali dalla Chiesa o il mondo in cui siamo immersi a tal punto da non riuscire più a comprendere il ragionamento di Gesù?
Dove sta la felicità? Come realizzare la nostra vita? E’ più felice una velina che si è fatta strada vendendo la propria dignità o una donna mite, piccola come Madre Teresa di Calcutta che ha dedicato tutta la sua vita per gli ultimi? E’ più felice un politico che fra tanti compromessi ha conquistato il potere o un piccolo uomo come San Francesco che si è spogliato di tutto ciò che aveva per darlo ai poveri ed essere tutto di Dio?
Gesù sta facendo un discorso importante, solenne, il primo da quando è “sceso in campo”: è descritto come il nuovo Mosè che, sul monte, dona la nuova legge, la magna charta, la Costituzione del nascente cristianesimo. Sa che ciò che ci preme più di tutto è rintracciare la felicità, realizzare la nostra vita. E ci dice:
“Dio è la fonte della felicità, se avete Dio avete tutto. Beati gli amici di Dio che sanno affidarsi a Lui”.
Beati allora i POVERI in Spirito, coloro cioè che sentono il BISOGNO di Dio, che come mendicanti sono lì ad invocarne la presenza. Se siamo pieni di tante cose (e di tanti impegni) ci illudiamo di non aver bisogno di altro (e degli altri), ci sembra di non aver bisogno di Dio.
Beati i PURI di cuore, perché hanno uno sguardo limpido, capace di vedere Dio.
Beati coloro che LOTTANO per la GIUSTIZIA e per la PACE perché anche Dio lotta per gli stessi motivi e si fa accanto a loro.
Beati i MITI, i MISERICORDIOSI, perché questi sono gli atteggiamenti di Dio, lo stile di vita di Gesù: solo chi ama conosce Dio che è Amore, solo chi non risponde al male col male, ma con il bene, segue le orme di Dio e imparerà a camminarci insieme.
Beati anche gli AFFLITTI e i PERSEGUITATI a motivo della loro fede perché scopriranno di avere Dio come consolazione e difesa.

Giuseppe Lipari:
Attenzione: sono detti beati i poveri, non la povertà. Sono beati gli uomini, non le situazioni. Dio è con i poveri contro la povertà che è miseria. Beati quelli che sono nel pianto: Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. Ma non perché la felicità si trovi nel piangere, bensì perché accade una cosa nuova: Chi piange ha Dio che gli cammina accanto, asciuga le sue lacrime, fascia il suo cuore, apre il suo futuro. Dio è un papà che si commuove, non un sadico.

Attenzione ancora:
Sono da una parte situazioni in cui ci affidiamo a Dio, lo lasciamo agire-governare perché realizzi il suo Regno di amore: sono i poveri e gli afflitti a confidare e a rifugiarsi in Dio, sono i miti a sperimentare la forza dell’amore…
Dall’altra parte sono motivi per cui impegnarci, sono un programma di vita: vivere nella sobrietà, nell’essenzialità per condividere i beni e promuovere la giustizia, essere operatori di pace, miti, ma non arrendevoli, toccati dalla miseria altrui e impegnati a risolverla…

Beato il ragazzino/a prepotente, ricco, bello?
Es. del figlio di un VIP che, venuto a festeggiare in Parrocchia: aveva la tavola imbandita di tante cose, ma pochi amici a consumarle e a dare gioia;
es. di chi ha genitori ricchi, potenti, ma spesso con poco tempo da condividere con loro, troppo presi e impegnati, distanti con i figli;
es. di chi è PREPOTENTE e riesce ad essere leader del gruppo, a primeggiare, ma è rispettato dai compagni, ma non amato dagli amici, non è consapevole dei propri limiti e per questo si mostra per quello che non è, si mette continuamente delle maschere, ha paura di apparire per quello che è.
BEATI VOI che avete amici sinceri, che sapete rispettarli, che vi volete sinceramente bene, che state imparando a donare (perché c’è più gioia nel donare che nel ricevere), che sapete prendervi in giro per i vostri difetti, con un po’ di ironia, sapendo che tutti abbiamo cose belle e cose meno belle, ma l’importante è essere se stessi, persone autentiche, aperte.
Beati voi appassionati per la vita, voi che sapete riflettere, che vi fermate a pensare, che avete genitori da cui ricevete amore e a cui contraccambiate amore, disposti al dialogo, al rispetto reciproco, voi che vivete in un ambiente sereno e che fate di tutto per mantenerlo tale.
Beati voi che imparate a conoscere Dio, voi invitati alla sua mensa, che siete disposti a dedicargli del tempo, ad ascoltare chi vi parla di Lui, a parlare con Lui: non vi deluderà! Vi renderà felici: la vostra vita non sarà magari facile, ma sicuramente bella e felice.

giovedì 1 settembre 2011

Mt 18,15-20: GUADAGNARE UN FRATELLO

XXIII TEMPO ORDINARIO/A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».

Ermes Ronchi:
Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, tu va'... Queste parole tracciano le regole di base per la convivenza fraterna.
La prima: se qualcuno ti ferisce, tu non chiudere la comunicazione, non lasciare che l'offesa occupi tutta la scena, non metterti in atteggiamento di vittima o di sudditanza di fronte al male - questo lo renderebbe più forte -, ma fa tu il primo passo, riapri tu il dialogo. È il primo modo per de-creare il male, per esserne liberati. Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello. Una espressione inusuale e commovente: «guadagnare» un uomo, «acquistare» un fratello, arricchirsi di persone. Il vero guadagno della mia vita corrisponde alle relazioni buone che ho costruito. Ogni persona vale quanto valgono i suoi amori e le sue amicizie. Una comunità si misura dalla qualità dei rapporti umani che si sono instaurati. Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Senza l'altro l'uomo non è uomo. Il Vangelo ci chiama a pensare sempre in termini di «noi». Tutto quello che legherete sulla terra... Il potere di sciogliere e legare non ha nulla di giuridico, consiste nel mandato fondamentale di tessere nel mondo strutture di riconciliazione: ciò che avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò che avrete liberato attorno a voi, di energie, di vita, di audacia e sorrisi, non sarà più dimenticato, è storia santa. Ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre.
dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro. Non semplicemente nell'io, non semplicemente nel tu, il Signore sta tra l'io e il tu, nel legame. In principio ad ogni vita, il legame, come nella stessa Trinità. La costruzione del mondo nuovo inizia dai mattoni elementari io-tu, dalle relazioni quotidiane. Ma c'è un terzo tra i due, un terzo tra me e te, il cui nome è Amore: collante delle vite, forza di coesione degli atomi (Turoldo), unità dei mondi. È tra noi, ad una condizione: che siamo riuniti nel suo nome. Non per interesse, non per superficialità, non per caso, ma nel suo nome: amando ciò che lui amava, preferendo coloro che lui preferiva, sognando il suo sogno di un mondo fatto di fratelli, dove il giusto e il peccatore, il violento e l'inerme si tengono per mano.

Alberto Maggi:
Dopo aver parlato dello scandalo della comunità verso i piccoli, cioè gli emarginati, che possono essere scandalizzati da quello che vedono all’interno della comunità in termini di ambizione, di superiorità, Gesù ora arriva a parlare dello scandalo dei dissidi all’interno della comunità.
- “«Se tuo fratello»”, quindi si tratta di un componente della comunità, “«commetterà una colpa contro di te, va’ e …»”, non ammoniscilo, come riporta questa traduzione, ma “«convincilo»”. Non è la posizione di un superiore verso un inferiore per ammonirlo, ma è la posizione del fratello che cerca di ricomporre l’unità, cerca di superare il dissidio. Sempre ricordando quanto Gesù già ha ammonito, cioè che prima di guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello, occorre stare attenti che uno non abbia la trave conficcata nel suo (trave che deforma la sua realtà).
- “«Tra te e lui solo»”, quindi al dissidio non deve essere data pubblicità, si deve risolvere il problema. Ed è la persona offesa che deve andare verso l’offensore, perché chi sbaglia, chi offende spesso non ha il coraggio, non ha la forza di chiedere scusa, di chiedere perdono. Allora deve essere la parte lesa, la persona offesa, che va verso l’offensore e ricomporre il dissidio.
- “«E se ti ascolterà avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi con te una o due persone»”; sono quelli che nella comunità svolgono il ruolo di costruttori di pace, “«perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni»”.
- “«Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità»”. Il termine greco è ecclesia che rappresenta la comunità dei convocati, l’assemblea dei convocati da Gesù, “«E se non ascolterà neanche la comunità, sia per te»”, quindi non per la comunità, ma per te, “«come il pagano e il pubblicano»”. Cosa significa? Non significa che quest’individuo, causa del dissidio, vada escluso dall’amore della comunità, e neanche dal tuo amore, ma significa che questo amore sarà a senso unico.
- Mentre nella comunità l’amore donato viene anche ricevuto, perché i fratelli si scambiano vicendevolmente questo amore, verso la persona che è causa del dissidio, l’amore va dato come quello verso i nemici. Gesù dirà di amare i nemici, dirà di pregare per i persecutori. Quindi non significa escludere questa persona dal tuo amore, ma amarlo in perdita, a senso unico.
- E sempre parlando della tematica del perdono, Gesù assicura: “«In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo»”. Si tratta sempre del perdono, chi non perdona lega il perdono di Dio, “«E tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto in cielo»”. Si tratta del perdono, Il perdono di Dio diventa operativo ed efficace quando si traduce in perdono verso gli altri. Quindi chi non perdona lega il perdono di Dio, mentre chi perdona lo scioglie.
- E poi Gesù conclude: “«Ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo»”, il verbo mettere d’accordo è Sinfoneo, da cui la parola “sinfonia”. E’ importante perché indica la vita della comunità. Sinfonia significa che diverse voci, diversi strumenti suonano ciascuno dando il meglio di sé. Non ci deve essere una uniformità di voci e di suoni, ma c’è una varietà nell’unico spartito che è quello dell’amore. Quindi è l’amore vissuto nelle varie forme, fiorito nelle varie modalità.
- “«Per chiedere qualunque cosa, il Padre mi oche è nei cieli gliela concederà. Perché dove due o tre …»”, ecco ritornano i due o tre che sono stati fautori della pace, coloro che sono andati a eliminare il dissidio, la loro funzione di costruttori di pace, rende manifesta la presenza del Signore. “«… sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro»”.
- E ritorna la tematica cara all’evangelista, quella del Gesù, il Dio con noi. Mentre nella tradizione ebraica si diceva che dove due o tre si riuniscono per studiare la Torah, la legge, la Shekinà, cioè la gloria di Dio è in mezzo a loro, Gesù si sostituisce alla legge. L’adesione a Dio non avviene più attraverso una legge esterna all’uomo, ma nell’immedesimazione con una persona: Gesù, il Figlio di Dio, il modello dell’umanità. Gesù assicura che quando c’è questa unità, quando si ricompongono i dissidi all’interno della comunità, la sua presenza è ininterrotta e crescente.